Qui di seguito le descrizioni di alcuni dei reperti esposti all’interno del museo.
L’augustale è sicuramente una delle monete più famose di tutto il medioevo. Sul diritto della moneta è rappresentato un busto laureato di profilo con il volto verso destra, con la legenda CAES AUGUST IMP ROM; sul rovescio un’aquila ad ali spiegate con la testa rivolta verso destra con la legenda FRIDERICUS. Malgrado il volto dell’imperatore non sia un ritratto fisionomico ma un’immagine ispirata ai modelli classici – come la corona d’alloro e il paludamentum che fino al momento del nuovo riutilizzo da parte di Federico II erano stati pressoché abbandonati –, il volto dell’imperatore su questa moneta, accompagnato dai titoli consueti, doveva consentire ai sudditi di figurarsi l’immagine vincente e maestosa dell’imperatore e del suo regno.
La coniazione del Ducato o Ducale d’argento ispirata, forse, al miliaresion di Michele VII (1071-78), costituisce a livello esteriore la maggior innovazione della riforma monetaria emanata ad Ariano Irpino nel 1140. Iconograficamente il ducale è una moneta molto bella, dalle dimensioni relativamente grandi, che doveva rappresentare al meglio la maestà del nuovo re e del nuovo regno. Sul dritto è raffigurato il busto di Cristo pantocrator, con il libro dei Vangeli nella mano sinistra con la legenda + IC XC RG /IN AETRN, e sul rovescio sono rappresentati il re Ruggero II e suo figlio Ruggero duca di Puglia, mentre tengono tra loro la doppia croce patriarcale su lunga asta con la legenda R DX AP/ R R SLS // AN/R/X (Rogerius dux Apuliae, Rogerius rex Siciliae, anno regni X). Si tratta della prima di una serie di monete associative, che riproducono cioè il re e il figlio che gli succederà, secondo un tipico modello iconografico bizantino. La moneta rappresenta quella che doveva essere l’idea del potere e della sovranità secondo Ruggero II. I simboli del potere, la corona, le vesti, il globo crucifero, pongono il re di Sicilia sullo stesso piano dell’imperatore bizantino.
La lastra di Mahdiya, così chiamata dalla città tunisina dove a metà Novecento fu rinvenuto il bassorilievo marmoreo è una copia in gesso realizzata nel laboratorio della sezione islamica del Museo Nazionale del Bardo a Tunisi, nel 2004. La scultura rappresenta un re seduto su un piccolo scranno e con i piedi incrociati. Il monarca reca sul capo una corona a tre punte, due laterali e una più larga centrale, coperto da una tunica decorata da una fascia ornata da una greca che corre sulle maniche del vestito (tiraz). Una cintura decorata con cerchietti lascia pendere al centro un ulteriore elemento che si allunga di poco verso il basso. Il sovrano regge nella mano destra un calice mentre alla sua sinistra è rappresentato un musico nell’atto di suonare il flauto. La lastra, un bassorilievo in marmo bianco, (53×36 cm) riveste una grande importanza che assume un grande valore artistico per la sua testimonianza archeologica poiché rappresenta l’unico elemento materiale oggi conosciuto del passaggio dei condottieri normanni sul territorio africano. Le stringenti affinità con l’arte arabo-normanna del XII secolo e i rapporti frequenti di incontro scontro tra queste popolazioni hanno fatto supporre che la lastra potrebbe essere attribuita all’epoca normanna ovvero al tempo della conquista ifriqiyena di Ruggero II. In tal caso la lastra raffigurerebbe il sovrano normanno nell’atto di festeggiare a suggello dell’annessione dei nuovi territori dell’Africa del Nord.
La riproduzione del mantello, in scala 1:1, in seta foderata, fu effettuata dalla Azienda Serica Ratti s.p.a. di Como, nel 1993 in occasione della mostra Normanni popolo d’Europa. L’originale del mantello conservato presso il Kunsthistorisches Museum, Schatzkammer di Vienna, in seta di fattura orientale, probabilmente arabo-sicula, realizzato circa tre anni dopo l’incoronazione di Ruggero II, adornato, su sfondo rosso, da ricami in oro a punto posato, di centinaia di perle disposte in doppia fila per contornare le figure, e di trentuno miniature in smalto a forma di losanga. Dalle dimensioni notevoli doveva probabilmente essere uno dei mezzi di esaltazione e di manifestazione esteriore della maestà regia. Le figure rappresentate, un leone che azzanna un cammello e l’albero della vita, potrebbero essere afferenti al campo semantico della regalità. Il primo, il leone vittorioso che sovrasta un cammello o un toro, è un antico simbolo di potere di origine orientale e doveva essere, probabilmente, la rappresentazione del potere del nuovo re forte e vittorioso; il secondo, l’albero della vita, simbolo cosmico di unione tra il cielo e la terra, doveva rendere visibile anche la componente sacrale, con un linguaggio chiaro a tutti, musulmani e cristiani, del potere regio. La leggenda scritta in caratteri cufici sul bordo recita: «Questa fu fatta nell’officina reale per la buona fortuna e l’onore supremo e la perfezione e la forza e il meglio e la capacità e la prosperità e la sublimità e la gloria e la bellezza e il raggiungimento della sicurezza e delle speranze e della bontà dei giorni e delle notti senza fine e senza interruzione, per la potenza e la custodia e la difesa e la protezione e la buona fortuna e la salvezza e la vittoria e l’abilità. Nella capitale della Sicilia nell’anno 528 (dell’egira) (1133-1134)»
Il piatto di evangeliario è una copia di un originale del secolo XI, conservato nella Basilica di Santa Maria in via Lata a Roma, realizzato in scala 1:1, con la tecnica del rilievo a sbalzo da un anonimo sul finire del secolo XVI e collocato su un supporto ligneo. Non è dato sapere quali furono i motivi per cui fu effettuata questa copia perché non resta traccia; quello che sorprende è che, in piena età moderna, i simboli religiosi elaborati in età normanna vengano esattamente riprodotti e immessi sul mercato.
Il plastico ricostruisce la Battaglia di Hastings, combattuta il 14 ottobre 1066 da Guglielmo detto il “Bastardo” poi conosciuto come il “Conquistatore”, contro Aroldo II, re dei Sassoni. Guglielmo era figlio illegittimo di Roberto il Magnifico (1025-1035), duca di Normandia, dal quale ereditò il ducato all’età di otto anni. Nel 1053, Guglielmo sposa Matilde, figlia di Baldovino di Fiandre e discendente del re Sassone Alfredo il Grande. Edoardo III, il Confessore, figlio di Etelredo II del Wessex e della sua seconda moglie Emma di Normandia, era stato chiamato dall’esilio in Normandia, dal Re d’Inghilterra Canuto II l’ardito, per la morte di suo fratello Aroldo I, divenendo così co-regente e suo erede; assume il trono inglese nel 1042, ripristinando la linea reale sassone; sposa Edith, figlia di Godwin, conte del Wessex e capo della fazione anglodanese che aveva supportato Canuto il Grande e i suoi figli. Edoardo III, senza prole, aveva promesso al cugino Guglielmo che lo avrebbe nominato suo successore al trono d’Inghilterra; pertanto nel 1064, aveva inviato in Normandia suo cognato Aroldo II, fratello di Edith, per giurare fedeltà a Guglielmo. Alla morte di Edoardo, i dignitari elessero re Aroldo II, generando le rivendicazioni al trono di Guglielmo che accusò Aroldo di spergiuro. Dopo aver organizzato una flotta, Guglielmo partì dal porto più a Nord della Normandia, Saint Valery-sur Somme, e attraversato il canale della Manica sbarcò, dopo nove ore di navigazione a Pevensey. La battaglia per la conquista durò dalle prime ore del mattino sino alle prime ore del giorno seguente.
I Sassoni capeggiati da Aroldo si erano accampati su una collina chiamata Battle, in posizione dominante, armati con scudi di forma circolare, lancia, spada a doppio taglio e ascia da battaglia; i soldati Normanni abbigliati con una cotta di maglia, realizzata con anelli di ferro intrecciati, elmo di forma conica con il nasale, scudo arrotondato nella parte superiore e appuntito nella parte bassa come la forma di un aquilone, spada lancia e scure e gli arcieri con le faretre piene di frecce, si erano posizionati nella parte bassa della collina, con arcieri, fanti e cavalieri disposti a ventaglio per poter accerchiare i Sassoni. La posizione era favorevole ad Aroldo ma Guglielmo fece attuare una finta ritirata alle sue fanterie che vennero inseguite dai sassoni che, accerchiati dalla cavalleria normanna furono annientati; Aroldo morì sul campo di Battaglia accecato da una freccia. Con il Regno di Guglielmo, detto il “Conquistatore”, ebbe inizio la dinastia dei Normanni che siede tutt’ora sul trono inglese, e, tutti i sovrani d’Inghilterra, suoi successori sono infatti i suoi discendenti diretti. L’epopea della conquista e le ragioni della guerra sono rappresentate nell’arazzo di Bayeux. L’Inghilterra dopo questo avvenimento non conobbe più, per il resto della storia, alcun tipo di invasione.
Una sponda di carretto siciliano divisa in due riquadri raffiguranti, come la stessa legenda suggerisce, «Ruggiero contro i Pagani» e «Ruggiero Normanno a Palermo», ascrivibile al sec. XIX, realizzata da un non meglio identificato Giuseppe, poiché il resto della iscrizione è abrasa; le scene raccontano per rappresentazioni figurate l’epopea normanno-sveva, giunta sino ai nostri giorni attraverso la memoria orale popolare, rappresentata nell’Opera dei Pupi siciliani ispirata all’opera di Goffredo Malaterra[1]; e ancora, una scultura lignea di carretto siciliano, ascrivibile al sec. XX, raffigurante due cavalieri che si affrontano in combattimento e che rimanda all’iconografia di uno dei due capitelli[2] a stampella in marmo bianco di fine XII secolo, che raffigura due cavalieri medievali in groppa a destrieri bardati che si affrontano con una lunga lancia, conservati nel Museo dell’Abbazia di Montevergine.
Liber Augustalis Friderici II, edizione del 1533 ,edita a Lione dal tipografo Dionisio de Harsy, è la prima edizione a riportare la numerazione delle Costituzioni.
Il raro volume delle Constitutiones regum regni utriusque Siciliae editato a Napoli dalla Stamperia Reale nel 1786 da Gaetano Carcani, con testo latino e traduzione greca, contiene anche la prima edizione (editio princeps) delle Assise di Ariano con il titolo Assisae Regum Regni Siciliae (pp. 227-232). Sul frontespizio è riprodotto il sigillo di Federico II in trono, con scettro nella destra e globo crucifero nella sinistra, disegnato dal Casanova ed inciso dal Guerra. La dedica è preceduta da una pregevole incisione di Antonio Piaggio a cura di Camillo Paderni raffigurante un angelo, un putto e una sirena che traggono dal mare partenopeo lo stemma di casa Borbone, mentre una divinità classica (Sebeto) osserva sdraiata tra le rovine di Ercolano.
La pergamena risalente al XII secolo, attribuita ad Enrico VI, con la quale il re concedeva ai nobiles viriUberto e Riccardo Ubaldini de Tipherno e ai loro eredi alcuni territori, riveste particolare importanza perché è un falso in forma di originale sopravvissuto all’applicazione della verifica dei privilegi imposta dalla famosa disposizione federiciana del 1220 nota col nome di De Resignandis Privilegis al fine di distruggere tutti i falsi realizzati in sua assenza per legittimare usurpazioni varie.
L’esemplare di Pilum, costituisce, forse, un unicum nel panorama museale italiano e ha una lunghezza di cm 100. Citato dalle fonti a partire dal IV secolo a.C., con riferimento alle guerre combattute dai Romani contro i Celti e i Galli, sembra derivare dall’adattamento di originarie armi etrusche. Originariamente costituito da un bastone molto corto e leggero a cui era assicurata una punta metallica, tra i secoli III e I a.C. il pilumaumenta di lunghezza e diventa l’arma in dotazione dei primi due ordini dell’esercito romano gli Hastati e i Principes. Il gambo in ferro dolce, ad eccezione della punta acuminata che era temprata, veniva assicurata ad un’asta in legno a cui erano inseriti due rivetti che tenevano saldamente il codolo infilato nell’asta. La caratteristica di questa arma è data dal fatto che colpendo lo scudo del nemico, piegandosi, impediva il riutilizzo non solo dello scudo ma anche dell’asta che piegata non poteva essere più utilizzata dal nemico in controffensiva.
L’affascinante armatura, più precisamente un corsaletto leggero da cavallo, ascrivibile al primo quarto del secolo XVI, è composto da una goletta con spalletti di sei lame, il petto con guarda ascelle e falda con tre lame di panciera, alle quali sono attaccate le scarselle di quattro lame. Mancando la schiena del corsaletto, le parti sono state fissate con dei ribattini, impropriamente, alla goletta; la giusta disposizione sarebbe dovuta essere collegata alla schiena con due cinghie di cuoio per risultare cosi appeso alle spalle assieme alla schiena stessa.
Questo sperone risale alla battaglia di Hastings combattuta nel 1066; uno sperone simile della lunghezza di 14,2 cm è conservato nel British Museum di Londra. Gli speroni sono costituiti da una sottile barra di metallo a forma di “U”, agganciata ai calzari dei milites tramite una piccola cinghia. Nella parte posteriore, al centro della barretta parte un punteruolo di forma conica molto appuntito che serve a spronare il cavallo al trotto e alla corsa. Le immagini dell’Arazzo di Bayeux costituiscono la fonte iconografica più significativa dello sperone fornendone le caratteristiche.
Il cavaliere (miles) normanno indossa su un giubbotto imbottito, costituito da più strati di tessuto cuciti su una base di cuoio foderato con lino o seta che evita gli attriti del metallo, l’usbergo, una cotta (tunica) in maglia di ferro, costituita da circa 30,000 anelli metallici intrecciati che pesa dai 10 ai 20 kg, lunga fino alle ginocchia ed aperta da profondi spacchi sul davanti e sul retro, per facilitare i movimenti sia nel combattimento a cavallo che in quello a piedi. Sopra il cappuccio di maglia il cavaliere indossa l’elmo di forma conica, in ferro e probabilmente rivestito all’interno di cuoio con nella parte posteriore due fori per fissare un guarda nuca in metallo. L’elmo è dotato di nasale che protegge la parte centrale del volto, lasciando a mala pena scoperte le parti laterali e inferiori del viso. Lo scudo è un’altra arma di difesa, detto in latino clipeus o scutum, ha una forma allungata, a “goccia”, con il margine superiore arrotondato e quello inferiore terminante a punta, per proteggere le gambe. La spada è una delle armi da offesa del cavaliere, lunga circa 90 cm, possiede una lama larga e dritta, a fili paralleli, con punta ogivata, adatta a perforare gli scudi e ad aprire le maglie dell’usbergo. La lancia costituisce la principale arma di offesa normanna. Si tratta di una lunga asta in legno, solitamente frassino, talvolta carpino, melo o pino, con una punta in ferro sull’estremità superiore, a volte dotata di barbe o di sbarretta trasversale per incastrarsi nell’armatura del nemico. In combattimento il cavaliere può maneggiarla in due diversi modi: di stocco, reggendo la lancia per l’estremità e alzando il braccio, per colpire dall’alto un bersaglio sia a piedi che a cavallo; in resta, cioè stringendola al fianco con il gomito, quando il cavaliere si getta alla carica contro l’avversario a cavallo e mira al torso o alla cavalcatura, in modo da rovesciarlo a terra. C’è da dire che l’espressione usata è in anacronismo rispetto al periodo di cui stiamo parlando. La resta, infatti, è un congegno che serviva ad appoggiare la lancia al fianco del cavaliere ma che fu introdotto in epoca successiva; tuttavia per economia linguistica viene usata per rendere il concetto di “lancia stretta sotto al braccio”.
La scure da decapitazione ascrivibile al XIII secolo, oltre che dalla lama, è costituita da un puntello di appesantimento e conserva parzialmente il manico originale.
Il proiettile in piombo romano a forma di ghianda veniva usato con la Frombola che è un tipo di arma molto antica composta da una sacca che contiene il proiettile con due lacci, uno dei quali termina con un cappio. La frombola o fionda con il proiettile all’interno si fa ruotare con il braccio e viene lanciata sul nemico, lasciando uno dei due lacci che sorreggono la sacca. Molto usata nel medioevo dalle unità di frombolieri, fu abbandonata quando la tecnica di costruzione delle armi rese più conveniente addestrare arcieri e balestrieri.
Il Libro dei Salmi di Federico II, esposto in bacheca costituisce una riproduzione in facsimile del manoscritto 323, conservato nella Biblioteca Riccardiana di Firenze. Fu Commissionato da Federico II, per la sua terza moglie, Isabella d’Inghilterra, sorella di Enrico re d’Inghilterra. Questi nel 1225, pensò di farla sposare con Enrico VII, re dei Romani, il figlio ribelle di Federico II e, qualche anno dopo, con Luigi IX, re di Francia. Solo nel 1234 i progetti matrimoniali di Enrico III d’Inghilterra trovarono esito concreto: infatti, in quell’anno l’imperatore Federico II, rimasto vedovo di Isabella di Brienne, si decise, su istanza di papa Gregorio IX, a chiedere la mano di Isabella.
Il volume l’art de la chace des oisiaus, facsimile del manoscritto francese 12400 della Bibliothèque Nationale de France è la traduzione francese del trattato De arte venandi cum avibus di Federico II, nella sua redazione in due libri , commissionata da Jean, signore di Dampierre, terminata nel 1310. Il trattato rivela un Federico scienziato e naturalista che dedica molto del suo tempo all’osservazione degli uccelli. I suoi luoghi di studio e di osservazione degli uccelli furono: San Lorenzo in Pantano, presso Foggia, dove realizzò un parco dell’uccellagione; alle saline del Gargano, nei pressi dell’attuale Margherita di Savoia, ove ancora oggi sostano gli uccelli migratori; a Salpi, l’attuale Trinitapoli, ove c’era una vera e propria oasi; ed in altri luoghi della Capitanata, nei boschi vicino Melfi in provincia di Potenza. L’opera è divisa in due parti. La prima, corredata da 500 miniature, presenta circa ottanta esemplari di volatili che possono essere catturati dai rapaci e ne descrive le abitudini, l’aspetto fisico, i modi di difesa, le tecniche di volo, tutte conoscenze indispensabili per addestrare con successo un falco. La seconda parte, utilizzando minuziose descrizioni e miniature, illustra le varie fasi dell’addestramento del falco con tutte le specifiche attività del falconiere. Il manoscritto originale dell’imperatore è andato perduto durante la sconfitta di Parma del 1248; ci è pervenuta però, una copia redatta dal figlio Manfredi realizzata dopo il 1258.